Il boom offerte di lavoro da remoto durerà anche dopo la pandemia

L’emergenza sanitaria ha costretto le aziende a riorganizzare il lavoro, privilegiando lo smart working, e più in generale, le forme di lavoro a distanza. Il lavoro da remoto però è destinato a “durare” anche dopo la pandemia. Anche in Italia, infatti, in linea con quanto avviene nel resto d’Europa, negli ultimi 12 mesi c’è stato un forte aumento di offerte di lavoro da remoto. A sostenerlo è Indeed, il portale per chi cerca e offre lavoro in tutto il mondo. I dati sugli annunci di lavoro pubblicati sulla piattaforma offrono infatti una visione a largo spettro su come la pandemia all’inizio del 2021 abbia rimodellato il mercato del lavoro, evidenziando tendenze che suggeriscono cambiamenti più profondi e destinati a durare.

Un’impostazione sempre più flessibile e da remoto

L’emergenza sanitaria ha contribuito a dare al lavoro un’impostazione sempre più flessibile e da remoto, offrendo la possibilità di svolgerlo da luoghi diversi. In Italia, da febbraio 2020 a febbraio 2021 gli annunci di lavoro in modalità smart sono cresciuti del 296% rispetto al totale, rappresentando ora il 6,4% degli annunci pubblicati sul sito italiano di Indeed (in aumento rispetto all’1,6% del febbraio 2020).

Milano guida la classifica dell’offerta di lavoro da remoto

L’offerta di lavoro da remoto è più rilevante nelle grandi città, in linea con quanto accade nel resto in Europa. Milano guida la classifica, con una quota del 10,4%, non distante Roma, con il 9,8%, mentre le percentuali nel resto dell’Italia sono più contenute, con il 5,5%. L’andamento dei job post trova conferma anche nella ricerca internazionale commissionata da Indeed per indagare lo stato d’animo di lavoratori e datori di lavoro. In Italia, un datore di lavoro su 2 ha dichiarato di aver introdotto la possibilità di lavorare da casa poiché al tempo del Covid risulta irrinunciabile per le persone. Chi cerca lavoro è infatti alla ricerca di professioni che possano essere svolte con flessibilità e da remoto. Tanto che negli ultimi 12 mesi sul sito italiano di Indeed, riporta Adnkronos, queste ricerche sono cresciute del +347%.

Una tendenza che riguarda anche il processo di selezione

“Le evidenze indicano che il lavoro a distanza sta diventando una modalità sempre più radicata, anche se è nelle città che si nota una maggiore offerta, per via della tipologia di lavori tipicamente ospitati nelle aree urbane – afferma Dario D’Odorico, responsabile per il mercato Italia di Indeed.co. -. Quello che è certo è che i numeri di chi cerca lavoro da remoto non sembrano diminuire, il che significa che il lavoro a distanza rimarrà una tendenza ampiamente diffusa, e molte aziende dovranno adottare un approccio flessibile per competere anche in fase di recruiting. Una apertura – sottolinea D’Odorico – che riguarda non solo possibilità di svolgere le proprie mansioni da remoto, ma anche tutto il processo di selezione”.

I lavoratori sono davvero al centro della trasformazione digitale?

Oltre a danneggiare la produttività il gap tecnologico nel mercato delle medie imprese sta generando un impatto negativo sull’esperienza dei dipendenti e sulla cultura aziendale. I lavoratori si sentono spesso poco coinvolti e chiedono maggiore flessibilità. Lo sostiene una ricerca di Ricoh condotta su 632 persone che lavorano in organizzazioni con un numero totale di dipendenti compreso tra 250 e 999. La ricerca identifica alcuni trend che stanno caratterizzano il nuovo modo di lavorare, e mette in evidenza le aspettative dei lavoratori.

I problemi del lavoro da remoto

In particolare, secondo la ricerca, il 42% dei dipendenti afferma che la cultura aziendale ha risentito delle restrizioni dovute al Covid-19. Un terzo (31%), poi, lavorando da remoto, si sente poco motivato a causa di problemi legati alle tecnologie per la collaboration, e il 30% ritiene di essere sotto pressione, perché i manager chiedono di essere maggiormente disponibili online quando si lavora da remoto. Inoltre, il 31% quando lavora da remoto è più stressato, perché risente delle responsabilità familiari e di altre pressioni personali, mentre il 67% del campione spera che la propria organizzazione sarà più aperta alle modalità di lavoro flessibile dopo la pandemia. E il 65% vorrebbe interagire con i colleghi “faccia a faccia”.

Il ruolo dell’HR manager e il senso di appartenenza all’azienda

Prima della pandemia, preoccuparsi della Digital Transformation non faceva parte dei compiti principali di un HR manager. Ora, invece, i responsabili delle risorse umane si trovano a essere promotori del cambiamento e di un workplace basato su innovazione tecnologica e flessibilità. Le sfide tecnologiche derivanti dal remote working stanno compromettendo il senso di appartenenza all’azienda e la motivazione dei dipendenti. I direttori delle risorse umane devono dunque comprendere di quali tecnologie le persone abbiano bisogno per lavorare al meglio nell’era digitale e per collaborare in modo efficace con i propri colleghi, ovunque ci si trovi. Questo è essenziale per creare una cultura aziendale positiva, che permetta di trattenere i talenti e di attrarne di nuovi, un aspetto per le imprese fondamentale per riuscire competere nei nuovi scenari.

Innovare, ma migliorando l’esperienza lavorativa

“Il 2020 ci ha messo di fronte a cambiamenti dirompenti e la capacità collettiva di reagire e di adattarsi è stata veramente degna di lode – commenta Nicola Downing, COO di Ricoh Europe -. Per le organizzazioni è importante riuscire a innovare e a migliorare l’esperienza lavorativa delle persone affinché possano collaborare in modo smart, sia che svolgano le proprie attività da casa oppure in ufficio, e le tecnologie permettono di farlo, annullando le distanze – continua Downing -. Dalla ricerca Ricoh emerge come la possibilità di lavorare in ufficio insieme ai colleghi rappresenti per molti un aspetto essenziale della vita quotidiana. Ecco perché è importante per le aziende favorire il rientro in ufficio mediante, da un lato, la creazione di ambienti di lavoro in cui salute e sicurezza sono la priorità, e dall’altro, il coinvolgimento delle persone per comprenderne i bisogni e le necessità”.

Nuovo condizionatore: quale scegliere?

Sicuramente, nelle calde giornate d’estate un buon climatizzatore è ciò di cui abbiamo bisogno per trovare ristoro con un po’ di aria fresca all’interno delle mura domestiche.

Dopo aver individuato quali sono le stanze o la stanza in cui è prioritario installare un condizionatore d’aria, bisogna capire quali tipologie ne esistano al momento sul mercato e come poterle sfruttare a nostro vantaggio.

La dimensione del locale da rinfrescare

La prima cosa che dobbiamo considerare è la metratura del locale in cui installare il condizionatore, perché da questo dipende la potenza minima necessaria dell’apparecchio che andremo ad acquistare.

Dobbiamo per questo considerare il BTU, che è l’unità di misura adoperata per misurare la potenza di un condizionatore. Mediamente, per un ambiente che va dai 30 ai 45 metri quadrati, è sufficiente un condizionatore d’aria di potenza tra i 10000 e I 12000 BTU.

Tipi di condizionatori esistenti

Ad oggi sul mercato esistono i condizionatori portatili, i quali aspirano l’aria calda dalla stanza e la gettano fuori per mezzo di un tubo. Questi hanno il difetto di consumare parecchia energia e di essere particolarmente rumorosi.

Ci sono poi i condizionatori fissi, i quali hanno una unità esterna collegata all’unità interna fissata a parete. I più moderni, tra questi sicuramente condizionatori Daikin, sono forniti di sistema inverter grazie al quale è possibile mantenere costante la temperatura abbattendo i consumi energetici.

Esistono poi i multi split, ovvero quelli che prevedono una unità esterna collegata a 2 elementi interni: qui Il vantaggio è che è possibile rinfrescare due differenti ambienti con un solo compressore.

L’importanza di usare bene il climatizzatore

Per un utilizzo consapevole del tuo nuovo climatizzatore, ricordati impostare la temperatura a circa 25 gradi centigradi, per contenere i costi e raggiungere questa gradevole temperatura che ti darà la possibilità di vivere in un ambiente particolarmente confortevole.

L’RC familiare festeggia un anno. Quanto si è risparmiato?

La norma che consente di assicurare i veicoli presenti nel nucleo familiare utilizzando la classe di merito più favorevole fra quelle dei componenti della famiglia, ovvero l’RC familiare, il 16 febbraio ha compiuto un anno. A distanza di 12 mesi dalla sua introduzione, Facile.it ha analizzato un campione di oltre 1.200.000 preventivi, e ha scoperto che in media il risparmio massimo ottenuto negli ultimi dodici mesi è stato del 55% per l’auto e del 50% per le moto.

Questo significa che chi ha usufruito dell’RC familiare per passare da una quattordicesima aa una prima classe di merito in media ha risparmiato 428 euro su un’auto, mentre per una moto il vantaggio economico è stato in media pari a 356 euro.

Un confronto con chi non ne ha beneficiato

Per calcolare il risparmio massimo conseguito grazie all’RC familiare, Facile.it ha esaminato i prezzi offerti nell’ultimo anno agli utenti che hanno chiesto di usufruire della norma (passando dalla classe 14 alla classe 1) confrontandoli con le tariffe offerte a utenti di pari profilo che non potevano beneficiare dell’assicurazione familiare. Nello specifico, guardando all’RC auto, la tariffa media offerta a un automobilista in quattordicesima classe era pari a 784 euro, e chi ha potuto usufruire dei benefici della norma ha visto calare il prezzo a 356 euro. Per l’RC moto, invece, il prezzo medio offerto per assicurare una due ruote in classe 14 era pari a 713 euro, valore che scende a 357 euro per chi grazie all’RC familiare è passato in prima classe.

Ad approfittarne sono stati soprattutto i motociclisti

Facile.it ha poi realizzato un focus su tre città italiane (Milano, Roma e Palermo), evidenziando come il risparmio massimo rimanga elevato in tutte e tre. In media, guardando all’RC auto, si tratta del 56% a Milano, del 53% a Roma e del 51% a Palermo. Per l’RC moto, invece, è del 44% a Palermo, del 43% a Milano e del 42% a Roma. In percentuale sono stati soprattutto i motociclisti ad approfittare della norma (23,2%), mentre tra gli automobilisti la percentuale scende all’1,67%: molti assicurati avevano infatti già beneficiato della legge Bersani. La percentuale così alta fra le moto, invece, si spiega dalla possibilità introdotta dall’RC familiare di ereditare la classe di merito maturata su una tipologia di veicolo differente. Così nell’85% dei casi è stata ereditata la classe di merito da un’auto.

Attenzione ai sinistri

Ma se è vero che l’RC familiare sì è dimostrata un’opportunità di risparmio per molti assicurati, non bisogna dimenticare che secondo la norma, in caso di incidente con responsabilità esclusiva o principale, e che abbia comportato il pagamento di un indennizzo complessivamente superiore a 5.000 euro, l’assicurato che ha beneficiato dell’RC familiare potrebbe retrocedere fino a un massimo di 5 classi di merito, anziché 2. Con un conseguente rincaro dei premi.

Quanto costano i dati personali nel dark web? Meno di un caffè

Comprare alcuni dati personali sul dark web costa meno di una tazza di caffè. È questo quanto hanno scoperto i ricercatori Kaspersky, che hanno indagato su due delle conseguenze più importanti della condivisione di dati personali in maniera illecita sul dark web, il doxing, ovvero la pratica di diffusione pubblica di dati online senza il consenso del diretto interessato, e la vendita di dati personali. E quanto al costo dei dati, hanno scoperto che l’accesso a dati sensibili, come le cartelle cliniche o i documenti di identificazione, costa appunto meno di un caffè. In particolare, per comprendere meglio come le informazioni personali degli utenti possano essere sfruttare se finiscono nelle mani sbagliate, Kaspersky ha analizzato le offerte attive su 10 forum e mercati darknet internazionali.

Un minimo di 42 centesimi di euro

La ricerca di Kaspersky ha dimostrato che l’accesso ai dati personali può costare da un minimo di 42 centesimi di euro a 8 euro per l’acquisto dei dati anagrafici, e dipende dal dettaglio e dell’ampiezza dei dati offerti. Alcune informazioni personali tra quelle vendute nel dark web, come i dati delle carte di credito, dell’accesso ai servizi bancari e di pagamento elettronico, sono rimaste invariate rispetto a quelle richieste dieci anni fa. Così come sono rimasti invariati i prezzi.

Cartelle cliniche e selfie con i documenti di identificazione costano fino a 33 euro

Dalla ricerca sono emersi anche nuovi tipi di dati. Questi includono, ad esempio, le cartelle cliniche e i selfie con i documenti di identificazione, che possono costare da 33 euro a 50 euro. L’aumento del numero di foto in cui vengono mostrati i documenti e di schemi di attacco che le utilizzano riflette anche un trend nei cybergood game. L’abuso di questi dati comporta conseguenze piuttosto significative, come l’appropriazione dell’identità di altre persone, così come sono significative anche le conseguenze dell’abuso di altri tipi di dati personali.

Non solo estorsioni e furto di denaro, ma anche l’utilizzo dei per danneggiare la reputazione

I dati venduti nel dark web possono essere utilizzati in vari modi: per estorsioni, truffe, schemi di phishing o per il furto diretto di denaro. Alcuni tipi di dati, come l’accesso a conti personali o a database di password, possono essere utilizzati in modo abusivo non solo per fini di lucro, riporta Italpress, ma anche per danni sociali alla reputazione, come il doxing.

Il web piace alle imprese, ma solo le grandi utilizzano tecnologie avanzate

Nel 2020 l’82% delle imprese con almeno 10 addetti non adotta più di 6 tecnologie tra le 12 considerate dall’indicatore europeo di digitalizzazione (nel Mezzogiorno 87,1%). Cresce notevolmente la quota di imprese che forniscono sui propri siti web informazioni sui prodotti offerti (55,5% dal 33,9% nel 2019).  Le applicazioni digitali più evolute sono poco utilizzate tra le PMI: circa l’8% dichiara di avvalersi di almeno due dispositivi smart o sistemi interconnessi, di robotica e analisi di big data e solo il 4,5% utilizza stampanti 3d nei processi di produzione. Sono solo alcuni dati dell’indagine Istat su imprese e ICT effettuata tra i mesi di giugno e agosto 2020.

I servizi cloud e l’commerce registrano un boom

Nel 2020, il 97,5% delle imprese con almeno 10 addetti utilizza connessioni in banda larga fissa o mobile. Rimane stabile la quota di imprese che fornisce ai propri addetti dispositivi portatili (ad es. computer portatili, smartphone, tablet, ipad) che permettono una connessione mobile a Internet per scopi aziendali/lavorativi (62,6%; era 62,4% nel 2019).  Aumenta la percentuale di addetti che utilizzano un computer connesso a Internet per svolgere il proprio lavoro (53,2%; era 49,9% nel 2019). Tale incremento è probabilmente dovuto anche alla risposta delle imprese alla pandemia iniziata a marzo 2020. A livello settoriale, le differenze maggiori tra il 2019 e il 2020 sono state registrate tra le imprese del commercio al dettaglio (dal 48,8% al 58,0%), dell’industria dei prodotti in legno e carta, stampa (dal 39,1% al 45,5%) seguite da quelle dei settori della ristorazione (dal 21,6% al 26,7%), della metallurgia (dal 38,0% al 43,2%). L’indagine ha colto altri possibili segnali di reazione alle difficoltà indotte dall’emergenza sanitaria, il deciso aumento di imprese con sito web che rendono disponibili informazioni sui prodotti e servizi offerti (dal 34% del 2019 al 55% del 2020) e di quelle che utilizzano servizi cloud (dal 23% del 2018 al 59% del 2020)i. La dimensione dell’utilizzo di dispositivi mobili e connessioni mobili forniti dalle imprese ai propri addetti rimane in linea con i livelli dell’anno precedente ed è pari al 62,6%, contro il 62,4% del 2019. Tale quota sale fino al 96,0% dei casi (95,3% nel 2019) per le grandi imprese che dichiarano di fornire tali dispositivi a circa un terzo dei propri lavoratori.

Il livello di digitalizzazione dipende dalla complessità aziendale

Il comportamento delle imprese è stato valutato rispetto a 12 caratteristiche specifiche che contribuiscono  alla definizione dell’indicatore composito di digitalizzazione denominato Digital intensity indexv utilizzato per identificare le aree nelle quali le imprese italiane incontrano maggiori difficoltà.  In generale, circa l’82% delle imprese con almeno 10 addetti si colloca a un livello ‘basso’ o ‘molto basso’ d’adozione dell’ICT, non essendo coinvolte in più di 6 attività tra quelle considerate; il restante 18% svolge invece almeno 7 delle 12 funzioni, posizionandosi su livelli ‘alti’ o ‘molto alti’ di digitalizzazione. Con riferimento ai 12 indicatori, nelle varie classi di addetti il divario maggiore si registra nella presenza di specialisti in ICT tra gli addetti dell’impresa e nell’utilizzo di robotica e di servizi cloud di livello medio alto. Inoltre, si evidenziano indicatori la cui presenza diventa significativa solo per livelli più alti dell’Index (ad esempio robot e stampa 3d) mentre altri vengono utilizzati anche in corrispondenza di un numero più limitato di attività adottate (ad esempio la fatturazione elettronica).

Le dimensioni fanno la differenza

La dimensione aziendale e la complessità organizzativa sono in linea con il diverso grado di digitalizzazione delle imprese che si distinguono anche per la tipologia di tecnologie implementate. In base alle combinazioni dei 12 indicatori che compongono l’indicatore sintetico per classe di addetti, tra le imprese fino a 99 addetti i modelli più utilizzati includono al più una velocità di connessione almeno pari a 30 Mbit/s, l’invio di fatture elettroniche, il sito web, la presenza di specifici servizi offerti sul sito. Il cloud di livello medio alto, l’intensità di utilizzo di computer e device mobili da parte della forza lavoro e la presenza di specialisti ICT sono più frequenti nelle imprese con almeno 100 addetti. Infine, alle attività relative alle innovazioni tecnologiche più avanzate, quali robotica, analisi di big data e stampa 3d ricorrono principalmente le imprese che hanno già adottato almeno 5 delle altre attività e quindi sono connesse soprattutto a gradi di digitalizzazione alti e molto alti.

Quattro grandi imprese su dieci vendono online

Nel 2019 la percentuale di imprese con almeno 10 addetti che hanno effettuato vendite online continua a essere contenuta (16,3%) sebbene si sia registrato un incremento di due punti percentuali rispetto all’anno precedente. Una crescita più consistente ha riguardato le imprese con almeno 250 addetti, che risultano anche le più attive nel mercato delle vendite elettroniche (40,2%, dal 35,6% nel 2018) rispetto a quelle con 10-49 addetti (15,2%, dal 12,8% nel 2018). La percentuale di imprese che nel corso del 2019 hanno venduto via web (13,7%) cresce di 1,8 punti percentuali e, tra queste, prevalgono quelle che hanno avuto come clienti i consumatori privati (84,1%) anziché imprese e amministrazioni pubbliche (57,2%).

Amazon lancia il programma per tutelare i marchi delle Pmi italiane

Amazon scende in campo per aiutare le Piccole e medie imprese italiane a proteggere i loro marchi e a combattere la contraffazione. Come? Rendendo il processo di registrazione della proprietà intellettuale più semplice ed economico. Dopo il lancio negli Stati Uniti avvenuto lo scorso anno il programma Intellectual Property Accelerator di Amazon arriva anche in Italia e in altri Paesi europei come Francia, Germania, Spagna, Olanda e Inghilterra, ed è disponibile per qualsiasi marchio che vende sulla piattaforma. Di fatto, Intellectual Property Accelerator, “mette gli imprenditori direttamente in contatto con una rete selezionata di studi legali e di consulenza europei, specializzati nella tutela dei diritti della proprietà intellettuale, a tariffe competitive”, spiega il marketplace globale.

Raggiungere le oltre 150.000 Pmi europee presenti sulla piattaforma

L’iniziativa, spiega ancora Amazon, mira a raggiungere le Pmi in Europa, comprese le oltre 150.000 presenti sulla piattaforma, dove i partner di vendita continuano a rappresentare oltre il 50% dei prodotti in vetrina. Negli Stati Uniti, ad esempio, IP Accelerator ha ricevuto 6.000 domande di registrazione di marchi presentate all’Ufficio Brevetti e Marchi, riporta Ansa.

In Italia l’iniziativa fa seguito al programma di formazione gratuito per accelerare la crescita e la digitalizzazione di oltre 10.000 Pmi italiane. Il programma viene realizzato in collaborazione, tra gli altri, con Ice-Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane.

Solo il 9% delle Pmi della UE ha registrato i diritti di proprietà intellettuale

Secondo una ricerca condotta Ufficio dell’Unione europea per la proprietà intellettuale solo il 9% delle Pmi della UE ha registrato i diritti di proprietà intellettuale, rispetto al 36% delle imprese più grandi, che hanno dunque quattro volte più probabilità delle Pmi di registrare i propri diritti in materia di proprietà intellettuale. Spesso, sottolinea Amazon, si tratta di mancanza di conoscenza della materia o di non sapere a chi rivolgersi. “C’è confusione sul motivo per cui i diritti di proprietà intellettuale sono importanti e su come i venditori possono proteggerli – commenta Francois Saugier, Vice President for EU Seller Services di Amazon -. IP Accelerator rende il processo di registrazione della proprietà intellettuale il più semplice ed economico possibile per gli imprenditori all’inizio delle loro attività” .

Promuovere la creatività e combattere la contraffazione

L’obiettivo finale del progetto è “promuovere la creatività e combattere la contraffazione”, aggiunge Lamberto Coppa, Chief Development Office di Jacobacci & Partners. I diritti di proprietà intellettuale infatti non solo impediscono a terze parti non autorizzate di utilizzare i marchi o copiare le idee, ma possono anche creare nuove fonti di reddito, ad esempio, concedendo licenze su beni o servizi. “La proprietà intellettuale è spesso considerata un argomento misterioso – sottolinea Stefano Klausner, il Managing Partner di Gregorj – in modo particolare da quegli imprenditori che hanno appena avviato la loro attività e sono completamente focalizzati sul loro business, ma non ne vedono nell’immediato il potenziale nel medio-lungo termine”.

Smart working tra opportunità replicabile e nuovo assenteismo

Durante il primo periodo dell’emergenza Covid-19 un’azienda su cinque ha applicato lo smart working su quasi la totalità dell’organico. In misura maggiore ne hanno usufruito le aziende con più di 500 dipendenti, di cui il 28% con oltre il 91% della forza lavoro in smart working, e quelle operanti nel settore del commercio e servizi (il 62% con più di metà risorse a distanza). Nonostante per 9 HR italiani su 10 l’assenteismo non sia percepito come preoccupante all’interno della propria impresa, oltre il 70% ritiene che lo spettro dei dipendenti assenteisti rappresenti un rischio tra elevato e molto elevato a livello di danno aziendale. Si tratta di alcuni dati emersi dalla seconda edizione dell’Osservatorio condotto da Abbrevia e il Gruppo Intersettoriale Direttori del Personale (GIDP). L’Osservatorio sviluppa un’analisi statistica del fenomeno dell’assenteismo, e quest’anno si arricchisce con la valutazione dell’approccio allo smart working.

Regolamentare la nuova modalità operativa

Secondo i dati dell’Osservatorio, settembre segna una diminuzione del ricorso al lavoro agile, che metà del campione applica a meno del 20% del personale.

Di particolare interesse è il tentativo di regolamentazione della nuova modalità operativa. Il 47% delle imprese non ha disciplinato lo smart working, ma chi ha normato questo strumento ha definito orari e luoghi di lavoro (24%) oppure gli obiettivi professionali (12%). A livello dimensionale, le aziende con meno di 150 dipendenti sono più propense a normalizzarlo (57%). Solo il 27% ha definito lo strumento con un accordo sindacale.

Abuso dello smart working come nuova categoria di comportamenti scorretti

Per la maggior parte degli HR intervistati (80%), l’applicazione dello smart working non ha causato anomalie. D’altra parte, il 56% delle imprese si mostra favorevole all’introduzione di controlli sugli smart worker, soprattutto in aziende meno strutturate (62%). Infatti, entrando nell’analisi dei comportamenti scorretti, la neonata categoria dell’abuso dello smart working figura al primo posto (40%), seguita da un utilizzo scorretto dei permessi per malattia o infortunio (24%).

Il fenomeno dell’assenteismo è in calo rispetto al 2019

In possibile correlazione con l’introduzione del lavoro agile, il fenomeno dell’assenteismo riporta un calo rispetto al 2019, con una media dei tassi di assenza (ferie e permessi esclusi) al 3,5% sul totale del monte ore, ma un incremento all’aumentare della dimensione aziendale. Per il 70% del campione si tratta di assenze brevi (2,1 giorni di media), più riconducibili a un “assenteismo tattico”: un HR manager su tre riscontra picchi di assenza, ad esempio, a ridosso del weekend (40%). In ogni caso, pur individuando gli illeciti, non sempre le aziende intervengono. Ma rispetto al 2019, quando a non agire era il 32% degli HR, oggi si è passati all’81%.

In Italia la pressione fiscale reale è al 48,2%

Al netto del sommerso e dell’economia illegale, pari al 12% del Pil, ovvero 215 miliardi di euro, la pressione fiscale in Italia raggiunge il 48,2%, +5,8% rispetto a quella ufficiale), tra le  più alte in Europa. Dopo cinque anni di calo nel 2019 si è verificato un incremento di 0,7 punti che ha riportato il suo livello complessivo indietro di quattro anni. È quanto emerge dallo studio del Consiglio e della Fondazione Nazionale dei Commercialisti dal titolo Analisi della pressione fiscale in Italia, in Europa e nel mondo. Struttura ed evoluzione dei principali indicatori di politica sociale.

La riduzione del quinquennio 2014-2018 non ha riguardato le famiglie

Dopo l’aumento del 2,1%) del 2012-2013 nel quinquennio 2014-2018 si è verificato un rientro del -1,7%, che però ha riguardato prevalentemente le imprese. La pressione fiscale sulle famiglie, il cui gettito totale è pari a 323 miliardi di euro su un totale di 758,6 miliardi, non ha riguardato questa riduzione, anzi, è aumentata. La pressione fiscale sulle famiglie, calcolata mediante una rielaborazione della Fondazione nazionale dei commercialisti dei dati Istat, è risultata nel 2019 pari al 18% (+0,3% rispetto al 2018).

Nonostante gli interventi sul cuneo fiscale degli ultimi anni, l’indicatore Ocse pone l’Italia ai primi posti in Europa, al terzo posto per dipendente single, con il 48%, e al primo per dipendente sposato con due figli, con il 39,2%.

Irpef e Iva coprono il 55,9% del gettito tributario totale

Dall’analisi del gettito tributario per singola imposta, si evince, inoltre, che le prime 10 imposte su 88 voci totali desumibili dalle tabelle Istat coprono l’85% del totale. Lo stesso dato era pari all’82,3% nel 1995, che rivela una tendenza alla concentrazione del prelievo tributario sulle imposte principali, riporta Askanews. Ad esempio, l’Irpef, che nel 2019 è la prima imposta con 176,8 miliardi di euro di gettito, copre il 34,2% del totale (+2% sul 1995), l’Iva, la seconda imposta per gettito, con 111,8 miliardi di euro, copre il 21,6% del totale (+1,3% sul 1995). Insieme, l’Irpef e l’Iva, coprono il 55,9% del gettito tributario totale (+3,3% sul 1995).

Sbilanciamento sul lato del lavoro rispetto al consumo

Nel confronto internazionale, la pressione fiscale si mostra sbilanciata dal lato del lavoro rispetto al consumo. Infatti, nell’ultimo anno con dati disponibili per un confronto, il 2018, l’Italia si pone al 7° posto nel primo caso e al 21° posto nel secondo. In particolare, per il gettito Iva in rapporto al Pil, l’Italia si colloca al 26° posto nella graduatoria EU27, mentre per il gettito dell’imposta personale sul reddito, l’Italia si colloca al 5° posto. Nonostante l’eccezionale riduzione del Totale Tax Rate tra il 2006 e il 2020, l’indicatore di pressione fiscale sui profitti societari calcolato dalla banca mondiale per l’Italia sfiora il 60%, risultando tra i più elevati in Europa.

Entro il 2030 Google si impegna a essere carbon-free

“La scienza parla chiaro, il mondo deve attivarsi ora per evitare le peggiori conseguenze del cambiamento climatico”. Lo afferma il Ceo di Google Sundar Pichai, che annuncia l’impegno da parte del motore di ricerca a utilizzare energia carbon-free, ovvero senza emissioni di carbonio, entro il 2030. E lo farà 24 ore su 24, 7 giorni su 7. La decisione di Google arriva dopo quella di Apple, che a luglio ha annunciato la sua svolta green impegnandosi, sempre entro il 2030, a diventare totalmente carbon free in tutte le sue attività nella catena di fornitura della produzione e nel ciclo di vita del prodotto. E ora anche il colosso di Mountain View intende fare la sua parte per “salvare” il pianeta.

“Entro il 2025 oltre 20.000 nuovi posti di lavoro per l’energia pulita”

“La scorsa settimana molti di noi si sono svegliati con un cielo arancione nella California settentrionale a causa degli incendi che continuano a imperversare – aggiunge Pichai in un post ufficiale della società – È importante agire subito”, e Google lo farà, assicura il Ceo. Ma non è tutto. Le ripercussioni positive derivanti dalla presa di posizione ecologista di Google non saranno solo sull’ambiente. Secondo Pichai l’impegno ambientale di Google genererà entro il 2025 “oltre 20.000 nuovi posti di lavoro per l’energia pulita e nei settori associati, negli Usa e nel resto del mondo”.

D’altronde, “Dal 2017 – continua il Ceo di Google – facciamo coincidere il nostro consumo complessivo di elettricità al 100% di energia rinnovabile. Ora vogliamo andare oltre: entro il 2030 intendiamo operare con energia priva di emissioni di carbonio ovunque, in ogni momento “.

Da Gmail a YouTube servizi a energia pulita in qualunque ora di qualunque giorno

Il primo passo, continua il Ceo, “sarà l’utilizzo di energia ‘carbon-free’ 24 ore su 24, 7 giorni su 7 in tutti i nostri data center e campus nel mondo. Ciò significa che ogni email inviata su Gmail, ogni domanda posta al Motore di Ricerca, ogni video visto su YouTube, e ogni ricerca su Maps per trovare il percorso migliore utilizzeranno energia pulita in qualunque ora di qualunque giorno”. Google, si impegna inoltre a investire in tecnologie che aiutino i partner e le città a fare scelte sostenibili.

Risparmiare l’equivalente delle emissioni di carbonio di un Paese grande come il Giappone

Il contributo di Google non si limita infatti a utilizzare direttamente energia pulita per i propri servizi, riporta Ansa. “Ad esempio – spiega Pichai – stiamo investendo nelle aree industriali per rendere disponibili 5 gigawatt di nuova energia senza emissioni di carbonio, per aiutare 500 città a ridurre le proprie emissioni di carbonio e per trovare nuovi modi di aiutare 1 miliardo di persone attraverso i nostri prodotti”.

Il motore di ricerca si è impegnato quindi ad “aiutare i governi locali a ridurre le proprie emissioni di carbonio – aggiunge Pichai – per un totale di 1 gigatone all’anno entro il 2030, l’equivalente delle emissioni di carbonio di un Paese grande come il Giappone”.